Event details
Dal 6 al 8 aprile
ore 20:30
Claudio Morici denuncia fin da subito una struttura epistolare con un unico destinatario: un figlio, precisamente, il figlio. Il proprio figlio. Non dunque un figlio qualunque di un padre qualunque, ma la messa in discussione di un diretto legame che possa però ricondurre l’autobiografia a una dimensione universale. L’autore – categoria che nel suo particolare caso condensa insieme la figura dello scrittore e quella dell’attore – sceglie prima di tutto una forma, il reading, in cui la vivacità performativa ricade sempre e comunque nel rigore della postura fissa, così che l’attenzione sia sempre focalizzata sulla parola e sul tono che la pronuncia; ne restano fuori solo brevi – ma per questo fulminanti – incursioni dall’esterno di pupazzi maneggiati a partire dalla posizione centrale, da cui controllare l’intera scena. La qualità di Morici è spartita in maniera pressoché paritaria tra la brillantezza della scrittura e l’energia dell’espressione, la voce trovata per portarla fuori di sé; una volta fortificato dunque questo nesso stilistico, ora semplice è lasciar cadere nella forma più contenuti possibili, mescolando leggerezza e profondità, sentimenti scomodi e temi difficili.
E già nel titolo la problematizzazione del dolore attraverso la comicità prende corpo con decisione. Si tratta non di lettere, ma di “tentativi di lettera”, ossia qualcosa che si dichiara già impossibile, fallimentare, fin dal principio. Il discorso sulla paternità si articola attraverso una sequenza cronologica di lettere al futuro, parole che diventano evanescenti nel momento in cui il destinatario non può ascoltarle né capirle; un padre incapace di fornire un esempio educativo, cerca la strada per ogni volta recuperare dall’inadeguatezza, finendo per interrompere, contraddire, rinnegare, ammettere di non saperlo fare. Ecco che il senso della vita o il motivo della separazione dall’altro genitore giungono a somigliarsi, sono un’utopia mascherata desunta dal manuale del buon padre di cui un uomo, il suo tempo, la sua generazione, ha perso il segno di pagina.
(Teatro e Critica – Simone Nebbia)