Ho una figlia, ma non sono sua madre. E non abbiamo in comune nessuna parte del nostro corredo genetico. Sono io che le somiglio tantissimo.
Quando ci chiedono cosa siamo, noi non sappiamo cosa dire.
Ci guardiamo. E sorridiamo.
Quel sorriso, è una parola segreta.
DAUGHTERS parla letteralmente di questo.
Partendo da una questione privata, vorrei interrogare le forme che non hanno un nome, le forme
che sfuggono alla capacità di essere definite, andando a deflagrare il concetto di essere figlie.
Attraverso una narrazione biografica, la ricerca indaga il rapporto tra scrittura e danza. Non solo
due linguaggi ma anche due corpi, trattati come materia.
Immaginare la scrittura come l’esercizio di un potere magico, la parola come un’immagine pronta
per accadere.
La ricerca si muove lungo i bordi tra l’aspetto visivo della parola e il suo corpo non umano -col
suo potenziale coreografico- e lo spostamento dell’asse del significato lineare dello stato di
danza, quella cosa che in me pensa in una lingua che non capisco, una lingua geroglifica non
tradotta che il corpo abita, conosce, ricorda.
Il corpo umano non è protagonista assoluto. La figura è in bilico tra l’apparizione e la sparizione,
ma si espone come superficie abitabile.
Tutto è teso verso un punto di convergenza: il movimento nello sguardo di chi osserva da fuori e
corre dal corpo alla parola alla sua figurazione, in un andare e venire.
(Tutto quello che ricordo è scritto, tutto quello che non ricordo è sepolto qui, in questo corpo.)