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Ero una ragazzina quando vidi per la prima volta l'Antologia di Spoon River - racconta Fernanda Pivano - Me l'aveva portata Cesare Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c'è tra la lettura americana e quella inglese. Duecentoquarantaquattro poesie, altrettanti epitaffi: questa è la Spoon River di Edgar Lee Masters, un piccolo cimitero su una collina.
I personaggi raccontano la propria storia da morti, quando si trovano ormai dallaltra parte della lapide, e ne approfittano: sparlano, screditano, recriminano, accusano, calunniano, infamano, con la spavalderia di chi non ha più niente da perdere. Dormono sulla collina è uno dei primi versi dell'Antologia, ma anche il titolo di una nuova "raccolta di epitaffi", piemontese invece che americana, e affidata all'oralità del teatro invece che alla pagina scritta. Un minatore con velleità da ornitologo e un suo collega terrorizzato in vita dal grisou e in morte dai fuochi fatui; un partigiano badogliano e un repubblichino di Salò; un tizio che morì con un tris d'assi in mano e un amante del bluff estremo; e poi ancora un prete oratore, un architetto ossessionato dalle altezze vertiginose, un poeta da quattro soldi, un mercante di parrucche...
"La morte", scrive Pavese, "è l'attimo decisivo, che dalla selva dei simboli personali ne ha staccato uno con violenza, e l'ha saldato, inchiodato per sempre all'anima". Ecco cos'hanno in comune tutti questi personaggi, oltre al fatto di essere piemontesi. Sono stati vivi e forti, si sono arrabbiati, si sono commossi, hanno riso e pianto, amato e odiato, e adesso tutti quanti dormono, dormono, dormono sulla collina.